venerdì 4 maggio 2012

Recensione: L'HOLBEIN DI LADY BELDONALD (Laura Savina su www.mangialibri.com)


La vita di un ricco pittore londinese di fine Ottocento è fatta di dimore eleganti, giardini, dame capricciose, ricevimenti e tè delle cinque, ma soprattutto è fatta di bellezza, di ricerca di armonia, di contemplazione di ciò che di più incantevole la natura ha da offrire agli occhi e alla mente affamati d’ispirazione. Ma non sempre la grazia risiede lì dove  l’aspettiamo, non sempre la pelle candida di una giovane donna rappresenta il perfetto emblema degli alti concetti che l’arte, da sempre, si propone di incarnare. E non sempre il tempo, spietato nemico della bellezza femminile, gioca a sfavore di quest’ultima: esistono casi, certamente rari, in cui proprio il tempo stringe con essa un’insondabile alleanza, e anziché distruggere l’opera perfetta del creato, finisce per definirla, arricchirla, se non addirittura plasmarla dal nulla, e del tutto. Di questo particolare e gradito scherzo del destino ne è un pregevole esempio Lady Beldonald, una donna che oltre ad aver attraversato da un pezzo il fiore degli anni, ha immolato la sua intera, silenziosa esistenza in nome della vanità, entrambe caratteristiche che potrebbero facilmente far pensare a sgradevoli risvolti, e che invece, nel suo bizzarro caso, hanno concorso a renderla magnifica, irrinunciabile preda per le passioni dell’artista. Il pittore ci racconta in prima persona l’esordio, lo sviluppo e infine l’inaspettata conclusione della breve vicenda innescata dalla sua richiesta di ritrarre Lady Beldonald. Assistiamo alla resistenza raffinata e infantile, partecipiamo del delicato ricamo di  precari equilibri su cui la nobile donna ha pazientemente intessuto la propria vita. Per l’agognata modella, il pittore organizza un party nel suo studio, vuole conquistarne definitivamente la fiducia e guadagnarsi l’approvazione necessaria affinché essa gli conceda di immortalarla sulla tela. Ma ecco che il meccanismo si inceppa: tra gli ospiti del ricevimento appare una figura minuta, in abiti austeri e modesti, con un viso che il protagonista e il suo amico parigino Outreau, non si trattengono dal definire “un vero Holbein”, una quadro in carne ed ossa, un soggetto unico e vivente. In un attimo il fascino di Lady Beldonald, la sua bellezza cristallizzata nel tempo soccombono, oscurati dalla visione di quella che, per ironia della sorte, la nobildonna aveva scelto come dama di compagnia proprio per la sua bruttezza e insignificanza…
Nonostante la brevità, che d’altronde caratterizza tutti i titoli della collana Il Voltaluna di Solfanelli, il testo di Henry James colpisce per la sua calibrata intensità. Si presenta come un piccolo scrigno intarsiato, curato in ogni minimo dettaglio, conchiuso e completo in sé stesso. I dialoghi del protagonista con gli altri personaggi e ancor più le riflessioni che intraprende tra sé e sé, sono evocativi di tutta un’epoca e di un luogo affascinante come la Londra di fine Ottocento: in molto meno di un’ora (il tempo che serve per leggerlo) questo libro ci trasporta all’interno di un frammento di storia che possiamo conoscere solo attraverso la penna dei grandi scrittori, e in più, lo fa lasciandoci calare nei panni del protagonista, rendendo l’esperienza ancora più tangibile e intima. Sperimentiamo quasi in prima persona il fascino che una visione come quella di Lady Beldonald e della sua dama di compagnia, poteva scatenare nell’animo sensibile di un uomo colto vissuto in un ambiente raffinato come quello che man mano ci si dispiega attorno. Anzi, come l’autore stesso sottolinea nel testo, è proprio grazie a quel certo ambiente che le due non più giovani donne, possono vivere un momento di così alta gloria e sentire il proprio nome risuonare nei palazzi e nei circoli della capitale inglese: “Naturalmente ci volle il nostro ambiente in particolare, col suo terrore infantile del banal, per essere così folli o così saggi; per quanto, io non abbia mai veramente saputo dove il nostro ambiente cominci o  finisca […]”. L’ironia è costantemente presente nel modo in cui James elogia e insieme si fa beffe di questo famigerato “ambiente”, capace di distruggere ma anche di innalzare e inchinarsi al cospetto del nuovo mito, della nuova fascinosa attrazione: “Possiamo fare questo: possiamo dare a una creatura indifesa e sensibile finora praticamente diseredata […] la pura gioia di una profonda sorsata del vero orgoglio di vivere, di un acclamato trionfo personale nel nostro superiore mondo sofisticato”. Sono innumerevoli gli stimoli intellettuali suscitati da questa breve e ricca lettura, e di questi fanno senza dubbio parte le riflessioni presenti nella presentazione del traduttore Sandro Naglia.

http://www.mangialibri.com/node/10314


L’Holbein di Lady Beldonald


venerdì 24 febbraio 2012

Una felice riscoperta: “Maestro Domenico”, un romanzo contro ogni rivoluzione

L’editore Solfanelli ha recentemente ripubblicato un piccolo gioiello, Maestro Domenico dello scrittore pisano Narciso Feliciano Pelosini (Calcinaia 1823 - Pistoia 1896), docente di diritto penale all’Università di Firenze, Accademico della Crusca, deputato e poi senatore del Regno. La carriera accademica e politica non gli impedì di rilevare i danni provocati dall’invasione piemontese, che compendiò nel 1871 in un grazioso racconto (che preferì pubblicare sotto pseudonimo) in cui il protagonista, il falegname Domenico che, sapendo leggere e scrivere ed insegnandolo ai ragazzi si era guadagnato l’appellativo di “maestro”, compie una gita fuori porta e si addormenta magicamente nella Toscana granducale per risvegliarsi, dopo oltre dieci anni, nel 1870 nell’Italia unita.
Per l’onest’uomo la vita sotto il Regno d’Italia è un vero e proprio inferno, fatto di prezzi altissimi, di tasse decuplicate, di regole e di multe, ma soprattutto del disprezzo nei confronti di ciò che il buon Maestro Domenico ha di più caro: il senso religioso, trasformato in «una piccolezza… un pregiudizio dei tempi antichi». È un mondo in cui «non c’è più religione, né timor di Dio», in cui le congregazioni sono non tanto abolite, quanto addirittura decadute, perché «i giovani si vergognerebbero a venire al mattutino e alla buona morte».
Niente meglio dello stupore attonito di Maestro Domenico – che non ha vissuto il pur veloce evolversi degli eventi, ma subisce lo choc della immediata consapevolezza – per comprendere quale violento mutamento sia stato imposto alla società italiana con il Risorgimento. «Proprio come ai tempi dei Francesi?» chiede stupefatto il Nostro, memore dei racconti sull’invasione giacobina del 1799 e dintorni. «Anche peggio» gli viene risposto.
Il racconto Mastro Domenico costituisce dunque un interessante contributo letterario alla causa tradizionalista con un sostanziale rifiuto dell’Unità italiana, almeno nei termini e nelle modalità con cui essa è stata realizzata: con pochi tratti Pelosini mette bene in evidenza il contrasto tra la semplicità dell’antico costume ed il materialismo dell’era unitaria, riuscendo a far intendere ai propri lettori il senso della caduta da un magnifico passato fatto di pratiche religiose, sano lavoro e culto della famiglia ad un presente che consiste in un caos organizzato, frutto di una rivoluzione in cui si intersecano furbizie e accaparramenti tra lusso e utilitarismo.
Così il racconto diventa messaggio e denuncia: vengono passati in rassegna l’oppressione del potere, la stoltezza della burocrazia, la superficialità della stampa, l’inettitudine della politica, la volgarità dei costumi, la diffamazione della religione.


Una rivoluzione apparentemente non violenta

Ma il breve romanzo si presta anche ad un’altra considerazione, estremamente attuale: la Rivoluzione spesso non è – nella sua interezza – violentemente sanguinaria. Lo è in alcune sue espressioni, ma, affinché risulti vincente, di solito cerca di raggiungere il proprio scopo attraverso una serie di piccoli atti, eventualmente supportati da qualche grande evento (magari violento e sanguinario).
Prendiamo il caso della Rivoluzione italiana, comunemente conosciuta come Risorgimento: nella sua fase finale l’atto violento (l’invasione della Sicilia da parte dei volontari garibaldini e la conseguente discesa dell’esercito piemontese – ufficialmente per soccorrere gli Stati assaliti) era stato preceduto, fu accompagnato e venne seguito da una serie di azioni, di prese di posizione culturali, di mode, di battage propagandistico, di leggi che aveva contribuito a cambiare la mentalità della popolazione e che permise di giudicare quella che era a tutti gli effetti una guerra di aggressione come una lotta popolare di liberazione.
Ciò non capita al buon maestro Domenico il quale, grazie al ventennale salto dovuto al sonno, non subisce quella lenta metamorfosi dei costumi che aveva reso indifferenti i più, ma nota immediatamente la profonda, abissale differenza tra il “mondo di ieri” e il “meraviglioso mondo nuovo”.
Tale discorso può essere applicato al principio rivoluzionario in generale e quindi a tutte le sue espressioni concrete: dal crollo della Belle époque in seguito alla prima guerra mondiale alle modificazioni liturgiche postconciliari, dai mutamenti della morale della seconda metà del Novecento alle degenerazioni artistiche di quello stesso periodo, e via enumerando.
Evidentemente non si può invertire a tavolino il corso naturale della società: le utopie sono mere astrazioni, ma si può, invece, erodere lentamente le basi di una sana struttura sociale minandole poco alla volta, oggi con una legge favorevole all’aborto (pardon, sulla “ivg”, termine asettico che non scuote le coscienze – l’uso della lingua ha un’importanza fondamentale in questo processo), domani all’eutanasia; oggi alla libera circolazione della droga e all’equiparazione dei matrimoni omosessuali, domani all’antispecismo (applicazione alla specie dell’antirazzismo, deriva estrema dell’animalismo) e al matrimonio dei sacerdoti. Il tutto corroborato da una “coscienza” dell’ineluttabilità del progresso, della modernizzazione, dell’aggiornamento.
Eppure basterebbe immaginare un nostro nonno o bisnonno fatto risvegliare in un moderno quartiere-alveare o comunque in una casa che – quali che siano state le sue condizioni economiche – non potrà non sembrargli minuscola; attorniato, anziché da camerieri o nipotini, da strani elettrodomestici di tutti i tipi; assordato dai rumori del traffico, delle radio e delle televisioni; assediato da eventi per lui inimmaginabili (uomini che si travestono da donne, politici che dichiarano i propri innaturali gusti sessuali, invertiti che marciano vantandosi della propria devianza, nudi esibiti nei giornali, nei manifesti pubblicitari, nei film e negli spettacoli teatrali, parolacce negli spettacoli per bambini…). Probabilmente il bisnonno riterrebbe di stare assistendo ad un sogno, anzi ad un incubo, ed il suo stupore sarebbe ben maggiore di quello del maestro Domenico.
Noi, invece, suoi nipoti, riusciamo a vivere tutto questo con assoluta, incosciente accettazione.

Gianandrea de Antonellis

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