lunedì 24 agosto 2009

La Presentazione di Lucio D'Arcangelo al libro di Josepf von Eichendorff: "La statua di marmo"

Il barone Joseph Karl Freiherr von Eichendorff (1788-1857), nato a Lubowitz in Slesia, amico di Brentano e di Arnim, fu un esponente di spicco del primo Romanticismo tedesco. Come poeta ebbe, come fu detto, la bacchetta del rabdomante per la sua capacità di ritrovare lo spirito e la lettera delle antiche canzoni popolari. Eloquenti gli incipit delle sue poesie, che furono musicate da Mendelssohn, Schumann e Brahms: "O ampie valli, o vento", "Stormiscono le cime", "Chi mai, o bel bosco", e sono diventate la quintessenza del Romanticismo. Eichendorff disse di sé stesso che non era un poeta, ma una poesia, e la madre di Goethe scrisse che il suo regno non era sulla terra, ma tra le nuvole.
Il suo primo romanzo, Ahnung und Gegenwart (Presagio e attualità, 1815) risale agli anni che precedono l’insurrezione antinapoleonica e consacra un narratore eminentemente "lirico", guidato da «quel sentimento immortale che ci immerge come nel centro della vita, di dove si irradiano tutti i colori, diffondendosi come raggi luminosi, per apparire sulla mutevole superficie in un leggiadro e dolente gioco di apparizioni.» Come scriveva Ladislao Mittner, quello di Eichendorff è «un mondo romanticissimo in cui tutti sembrano felici eppure quasi tutti sono malinconici sotto il velo della letizia.»
Musicisti erranti, cavalieri e studenti in cerca di avventure sono al centro dei racconti successivi, Das Marmorbild (La statua di marmo, 1819) e Das Schloss Durande (Il castello Durande, 1836), ed anche dell’opera più nota di Eichendorff, Aus dem Leben eines Taugenichts (Vita di un perdigiorno, 1826), storia di un ragazzo di campagna che, cacciato di casa dal padre per la sua scarsa voglia di lavorare, si dedica a quella Walderlust diventata il contrassegno dello scrittore. Il romanzo, incentrato sulla figura del poeta vagabondo (alter ego dell’autore), è una celebrazione dell’ozio e rappresenta la massima espressione dello spirito antiborghese e antifilisteo che animò il movimento romantico. Ma mentre nel Perdigiorno, che consacrò la fama di Eichendorff come scrittore, domina un colore quasi picaresco, nei racconti s’impone la vena fantastica, l’esplorazione dell’ignoto.
Tra di essi La statua di marmo appare il più suggestivo, non soltanto per il soggetto (una dea che rivive attraverso la sua statua), ma anche per l’ambiente: quell’Italia rinascimentale e pagana così amata dagli scrittori tedeschi.
Il racconto, affidato a un felice andirivieni della fantasia, rappresenta una delle più pure espressioni dello stato romantico di Träumerei: sogno che invade la realtà fin quasi a cancellarla. La vicenda di Florio, diviso tra sensualità e amore, paganesimo e cristianesimo, si svolge nella cornice di un esuberante paesaggio "italiano" e in una Lucca più immaginata che reale. Un mondo di castelli, parchi e nobildonne, immerso in una complice e splendida natura, invita il protagonista a quella "quieta felicità" che sembra una specie di leitmotiv della narrazione. In un susseguirsi di scene ora smaglianti e serene ora cupe ed enigmatiche, il trasognato ed anche frastornato Florio compie la propria educazione sentimentale avviandosi verso un lieto fine che suggella tutta la storia.
Prima ancora che Heine scrivesse Die Götter im Exil (Gli dèi in esilio, 1853), liberandoli dalla demonizzazione cristiana, troviamo il fantastico riapparire delle divinità pagane che abitano i loro luoghi sconsacrati. Ma all’antica statua di Venere, che riprende vita ogni primavera nella misteriosa signora del castello, fa da guardia l’infernale figura del cavalier Donati.
Il fluire quasi onirico della narrazione, dove tutto appare accentrato nel protagonista, e filtrato dal suo sguardo, rende plausibili i fatti più sconcertanti, presentati "a stacco" secondo una tecnica che si può ammirare anche in Hoffmann. Ma la prosa di Eichendorff, poeticamente ispirata, resta un unicum nella letteratura tedesca e si presenta al lettore in tutta la sua opulenta e giovanile freschezza.

Lucio D’Arcangelo